Vivere in un Limbo
Turbulence
Siamo intrappolati in una specie di limbo: non siamo né questo né l’altro. Da più di due anni il mondo è sconvolto da una serie di crisi interconnesse, che non danno l’impressione di potersi risolvere a breve termine. Le incrollabili certezze neoliberiste che ci hanno bloccati così a lungo sono collassate, ma nonostante tutto sembriamo incapaci di andare oltre. Ondate di rabbia e protesta sono esplose intorno ai vari aspetti della crisi, ma nessuna azione comune è riuscita a prendere consistenza. Il tentativo di uscire dalle paludi di un mondo in decadenza è inesorabilmente segnato da un senso di frustrazione generale permanente.
C’è una crisi della fiducia nel futuro che ci condanna ad un presente infinito e decadente, che è inerzia allo stato puro. Paradossalmente, nonostante i tumulti in questo tempo di ‘crisi’ in cui tutto sembra poter e dover cambiare, la storia sembra essersi fermata. Mancano la volontà e la capacità di affrontare davvero le molteplici dimensioni della crisi. Individui, industrie e governi tentano di proteggersi come possono aspettando che il ciclone finisca, quando tra un paio d’anni il mondo finalmente ritornerà quello di prima.
In tentativi di dare sostanza agli annunci di ‘germogli’ prendono per crisi ciclica quella che è una crisi epocale. Certo, quantità astronomiche di denaro hanno prevenuto il collasso definitivo del sistema finanziario, ma è anche vero che queste risorse non sono state stanziate per provocare il cambiamento, bensì per prevenirlo. Ci troviamo imprigionati in un limbo.
Crisi al centro
Eppure qualcosa è accaduto. Pensate all’ebbrezza di quei giorni sconvolgenti di fine 2008 quando tutto è successo così velocemente, quando i vecchi dogmi sono caduti come foglie d’autunno. Quei giorni erano reali e qualcosa lì è accaduto sul serio: i modi già sperimentati e testati di far funzionare le cose, ben rodati da circa 30 anni di neoliberismo globale, hanno cominciato a sballare e ciò che fino a quel momento era dato per scontato ha cominciato a perdere senso. C’è stato un cambiamento in quello che chiamiamo il centro o baricentro (middle ground) della società, ossia in quei discorsi e quelle pratiche che costituiscono la chiave di volta dell’arco politico.
Sicuramente non tutto avviene al centro, ma è ciò che assegna alle cose che gli ruotano intorno un determinato grado di rilevanza, di validità, o di marginalità. Si tratta del centro relativamente stabile attorno a cui tutto il resto viene valutato. Quanto più un’idea, un progetto o una pratica si trovano lontani dal centro esistente, tanto più probabilmente saranno ignorati dalla maggioranza, pubblicamente denigrati, squalificati o addirittura repressi. Quanto più essi si trovano vicini al centro, tanto più sarà loro possible essere incorporati – e pertanto anche in grado di influenzare il centro stesso. Il centro in un dato momento storico non viene deciso dall’alto come certe teorie della cospirazione lasciano immaginare. Esso emerge piuttosto da modi differenti di fare, di essere, di pensare e di parlare, e intrecciandosi si rafforzano a vicenda e creano il centro nella sua totalità. Con l’aumentare della coesione ‘dal basso’, il centro acquisisce anche la forza necessaria ad unificare ‘dall’alto’. In questo senso, le fondamenta del neoliberismo sono state costituite prima che all’edificio fosse dato il suo nome. D’altro canto, il momento dell’assegnazione del nome rappresenta un salto qualitativo, che indica il punto preciso in cui idee e pratiche politiche disconnesse divengono identificabili come parti di un tutto.
Il thatcherismo nel Regno Unito e il reaganismo negli Stati Uniti hanno segnato momenti cruciali di questo tipo per ciò che aveva iniziato a costituirsi già da tempo, e che in seguito ha dominato il centro per più di trent’anni. Il neoliberismo stesso è stato una risposta alla crisi del centro precedente, vale a dire alla crisi del fordismo/keynesismo. L’era del New Deal e dei suoi vari omologhi a livello internazionale, coincise con la nascita di una classe operaia potentissima, cresciuta con l’idea che i suoi bisogni di base avrebbero dovuto trovare risposta nel welfare state, che i salari reali sarebbero cresciuti in maniera costante e che la sua situazione sarebbe migliorata progressivamente. Inizialmente il progetto neoliberista si costituì come l’attacco ad un proletariato troppo esigente e a quelle istituzioni dello stato in cui il vecchio compromesso di classe era incorporato. I benefici del welfare sono stati ritirati, i salari hanno ristagnato o si sono ridotti, e infine la precarietà è divenuta la condizione generale del lavoro.
Ma questo attacco ha avuto il suo prezzo. Il New Deal aveva integrato al centro potenti movimenti operai – i sindacati di massa – contribuendo così ad una lunga stabilizzazione della crescita capitalista. Esso aveva garantito salari abbastanza alti da assicurare che ciò che veniva prodotto da un sistema industriale diventato molto più produttivo – perché basato sulla catena di montaggio di Henry Ford e sull’organizzazione scientifica del lavoro di Frederick Taylor – potesse essere acquistato. Passo dopo passo il feroce attacco alle classi lavoratrici del Nord globale è stato controbilanciato da tassi di interesse bassissimi (credito vantaggioso) e accesso all’acquisto di beni di basso prezzo perché prodotti in aree del mondo dove i salari erano a livelli bassissimi (come in Cina). Al Sud globale si faceva intravedere la possibilità che un giorno avrebbe raggiunto uno standard simile a quello del Nord. In questo senso la globalizzazione neoliberista è stata la globalizzazione del sogno americano: diventa ricco o muori provandoci.
Chiaramente anche il neoliberismo si è basato su di un qualche tipo di accordo sociale, ma la nozione di patto o deal sociale contiene un significato diverso; infatti il modo neoliberista di attrazione/incorporazione è stato sostanzialmente differente da quello del fordismo-keynesismo. Quest’ultimo prevedeva forze collettive visibili e costituite che esprimevano la volontà dei sindacati e delle organizzazioni contadine; il neoliberismo invece ha funzionato più per slittamento rispetto al patto fordista originario: esso si è rivolto direttamente agli individui in quanto attori sociali chiave. Si è trattato di un centro che è sorto da desideri, discorsi e pratiche ‘devianti’ alla ricerca di percorsi diversi da quello intrapreso fino a quel punto (la paura che i sindacati fossero diventati troppo forti, l’insoddisfazione dovuta alla tetra uniformità delle cose, l’esistenza di pratiche para-statali di corruzione a compensare una vita iperregolata), e quindi segnati all’individualizzazione. Infatti il nuovo centro aspirava a creare un certo tipo di individuo, una sorta si imprenditore di sé stesso atomizzato i cui legami sociali e collettivi fossero subordinati al perseguimento del guadagno privato.
Crisi del comune
Oggi il deal neoliberista è vuoto e nullo; il centro sta slittando nuovamente. Abbiamo superato l’era in cui il credito a buon mercato, valori finanziari in crescita e prezzi in discesa potevano compensare i salari stagnanti. Quei giorni sono finiti ma nessun nuovo centro è ancora riuscito a configurarsi. Nessuno ha varato alcun nuovo deal con cui rimpiazzare il vecchio, anche per questo ci troviamo in un limbo.
Si consideri che patti sociali e centri della società non vanno mano nella mano. Un nuovo centro può emergere da un patto sociale, sia esso esplicito (come nel caso del New Deal degli anni ‘30) o implicito (come nel caso del neoliberismo) – e se questo è il caso, risulterà particolarmente stabile. Ma un nuovo centro del campo politico può anche emergere senza che ci sia un accordo sociale vero e proprio. Un centro non richiede lo stesso livello di consenso di un patto sociale; tale consenso è una condizione sufficiente ma non necessaria. Più che altro un centro implica sempre un processo di attrazione e incorporazione di quelle forze che potrebbero minacciarlo, e la cui misura è definita dai suoi stessi termini.
Stringere un patto sociale è equivalente ad accordarsi – più o meno coscientemente – su una tregua (temporanea) nel mezzo di una battaglia feroce. Un centro invece può anche emergere da un periodo di conflitto e contestazione – una guerra di attrito più prolungata. Nella situazione attuale molte cose sono al momento ignote. Certamente non possiamo predire la durata o gli esiti del conflitto sul nuovo senso comune della politica. Oltretutto non è nemmeno chiaro quali siano le parti in causa. Solo dopo che la lotta sarà iniziata sarà possibile capire chi è alleato con chi. E allora chi combatterà chi e su cosa? Quale sarà il terreno comune dei movimenti nelle lotte a venire?
Le nozioni di terreno comune (common ground) e di centro (middle ground) sono strumenti teorici. Li usiamo per nominare le intersezioni e le risonanze delle varie lotte, delle pratiche, dei discorsi, degli obiettivi e dei referenti. Nel movimento altermondialista dello scorso decennio, si trattava, da un lato di un No condiviso alla logica monopolista del neoliberismo, e dall’altro dell’accettazione di un molteplice Sì alle varie alternative emergenti sull’economia, il comune e la socialità. Per molti anni, i movimenti hanno potuto incontrarsi e riconoscersi vicendevolmente sulla base del loro rifiuto comune al neoliberismo – senza dover negare le proprie differenze. Ma la frantumazione del centro neoliberista ha implicato anche la rovina del terreno comune radicata nell’antagonismo ad esso.
Traduzione di Alessandro Zagato (alessandro.zagato@gmail.com)
Editing di Alex Foti (alex.foti@gmail.com)
Turbulence sono David Harvie, Keir Milburn, Tadzio Mueller, Rodrigo Nunes, Michal Osterweil, Kay Summer, Ben Trott.
This is an Italian translation of an abridged version of the Issue 5 editorial article, ‘Life in Limbo?‘ by Turbulence. It was originally published in Issue 10 of Loop magazine. An Italian translation of the full article can be found online here. Additional translations of this article: Danish (published byModkraft.dk) | Dutch (published by GlobalInfo.nl) | Spanish [PDF] (published by Herramienta and in our Spanish edition) | Turkish (published by Birikim) | Swedish[PDF] (published by Brand) | Portuguese (published by Lugar Comum). Translations of other Turbulence articles can be found here.